Dormo con la Bestia (Di notte in notte)

Questa notte dormo con la Bestia. Ancora una volta sul suo letto, l’uno accanto all’altra, per sentire il suo respiro affannato su di me. Sarà forte. Tanto forte. Il suo respiro mi trapasserà lo sterno. Tra noi non c’è amore, o, se c’è stato, è andato perduto non molto tempo fa. Ad oggi, la mia venerazione per lei non so dove sia andata a finire. Io adoravo la Bestia. La desideravo come si è soliti bramare teste di creature selvagge, zanne di avorio o manti d’animale raro. Ricchezze, queste, che si conquistano solo con gesti di inaudita violenza.

Ricordo com’è iniziata. Quando da uno sguardo nacque l’ascesa verso il niente, di quella che all’inizio era un’innocua, tacita competizione e finì in una lotta che vide l’uno sottomettersi all’altro. Ho sempre pensato che il nostro legame fosse stato sancito da un gesto turpe, dalla Bestia compiuto verso di me. Mi aveva strappato qualcosa. Qualcosa come un arto. E lo aveva occultato così da legarmi indissolubilmente a sé. Fu da allora che io la cercai come se, in realtà, stessi cercando una parte di me. E lo feci senza sosta.

Un giorno, per caso, ci scontriamo per strada. Mi attraversa un dolore lieve, all’altezza del diaframma. Mi avverte perché resti in silenzio ad ascoltare, immobile, le poche parole della Bestia. Non colgo una sola parola che esce da quelle labbra sottili. Ma se rimango saldo a guardare i suoi occhi vitrei, neri come i suoi capelli, la sua dilatatissima pupilla scura, so che il rischio di fare passi falsi è minimo. È più alta di me, la Bestia, e io mi sento una gatta in allerta. Osservo un lupo irritabile che ad un mio gesto inconsulto mi sbranerebbe in pochi istanti. Mi chiede di rimanere con lei, quella sera. Anzi, credo non ci sia alcuna richiesta. Pretende che passi del tempo con lei. Dico sì, senza esitazione.

Mi accoglie nella sua casa spoglia. Soltanto i corridoi degli alberghi, frequentati da molti, di proprietà di nessuno, sanno essere altrettanto anonimi. Non una foto, un quadro, un oggetto che rimandi a un qualunque lato affettivo, umano, della Bestia. Pareti grigie e un letto nero, nella sua camera da letto. La sua pelle è incandescente ma la sua bocca è gelida, asciutta. La sua lingua mi tocca il collo, una punta di stalattite mi percorre il corpo, sembra disegnare qualcosa. Mi convinco siano simboli di un linguaggio ancestrale, di natura primitiva, la sua origine si è persa nel tempo. Dal collo, ancora, scende fino al grembo. Giù, giù. Mi trascina giù con gemiti feroci. Quando capisco che il contatto ossessivo dei corpi non provoca in lei alcun piacere, è oramai troppo tardi.

Post amplesso, scosta via da sé il lenzuolo e si dirige a passi decisi verso lo specchio. Lì, mi lancia uno sguardo. Ha un fare cinico, una performance persino ridicola, che porta avanti per un motivo a me ancora sconosciuto. Mi parla attraverso il suo riflesso e mi ricorda che gli dèi smaniavano per avere un corpo delle sue sembianze, ma che io non avrei mai potuto capire niente di materia celeste, o di entità oltreumane.

Quando gli chiedo perché, mi ordina di andare via immediatamente. La Bestia era sazia, penso.

Sparisci dalla mia vista.

Incredulo, forse ancora esaltato, le chiedevo di restare con me, di non portarmi via la notte.

Sii ancora spietata con me, Bestia.

Sei come un gabbiano. Candido, puro, che sfida i venti della tempesta. Non capivo cosa volesse dirmi. Irradi una certa luce, che mi meraviglia. Devi sparire dalla mia vista. Chiudi la porta dietro di te, uscendo.

Non portarmi via la notte, la imploro, sii ancora spietata con me, Bestia.

La Bestia mi avrebbe così tenuto a debita distanza. Si era concessa a metà, e sarebbe sempre stato così. Quanto avrei voluto che, anche solo una volta, avesse mostrato la più esile premura per me; sarebbe bastata un’attenzione, un’improvvisa, spontanea accortezza. Mai, io, avrei preteso alcuna forma d’affetto. Ma lui non aveva mai guardato al di là del suo muso e le mie attese furono sempre vane.

Passò molto tempo prima che mi accorgessi di essere diventato il martire di questa storia. Anzi, una vittima della sopravvivenza, quando mi scontrai con la consapevolezza che, in realtà, il suo sentimento – se mai c’era stato – era bruciato come un capello in una fiamma. Ma parlare di unità temporali è atto vano, se non addirittura insignificante. Lei, la bestia, non aveva età. La sua era un’assennatezza ingenita, perché creature ancestrali come lei, diceva, dominavano il tempo. Vivono negli intervalli dell’iperreale, nelle crepe di una convinzione o, chissà, di un abbaglio, tra le ombre dei palazzi e le luci screziate delle lampade tenute accese nelle notti insonni.

Ero così naïf di fronte a lui. Scivolavo costantemente nel suo affetto disumano, sempre troppo, troppo spietato, e senza poter chiedere in cambio nient’altro che silenzi. Ogni tentativo di conoscere qualcosa di più della Bestia, che non fosse la sua massa nuda, di carne, muscoli, sangue, artigli, occhi neri, era superfluo. Mi allontanava così da ogni elemento che portasse vivacità nella mia esistenza; gli amici, la luce del sole – soffriva di emicrania –, l’intraprendenza e la curiosità. Tutto si piegava al suo volere. L’unico corpo nitido, tra le mura opache del mondo che aveva creato apposta per me, era il suo.

Confesso che i momenti più bui erano quelli in cui mi ordinava di rimanere a casa, perché troppo grande, delle volte, era il suo bisogno di solitudine. Cosa faceva, la Bestia, con se stessa? Pensavo a molteplici forme di tradimento, ma sapevo che la Bestia non avrebbe avuto remore nel dirmi che il mio solo corpo non bastava a saziare la sua fame. Non me ne sarei neanche potuto lamentare. Dopotutto, a lui  non interessava il mio supplizio.

Era capace di vederli tutti, i miei tormenti, ma sceglieva sempre di non dare adito ai miei attimi di assenza, in cui rimanevo fermo, a fissare un punto cieco sul pavimento. Perché, mi chiedevo, delle volte speravo di sorprenderla sbranare qualcun altro, e osservarli consumarsi sul letto in cui, la sera prima, aveva posseduto me? Un feticcio sessuale o un semplice casus belli, il pretesto cardine che avrebbe posto fine a tutto ciò?

 

C’erano giorni in cui avrei voluto sparire nel nulla. Ho invocato il Signore perché fermasse in un secondo il mio cuore; insostenibile era dividere i battiti tra il mio stesso spirito e l’onnipresente effigie della Bestia. Uno spasimo che mi rendeva cieco di fronte a qualunque cosa. Lì, improvvisamente, mi accorsi di quanto l’amore e il lutto avessero in comune. Smarrirsi in desolanti contingenze, in una lunghissima caduta libera nella perdita di qualcosa, di piccoli frammenti di una di per sé fragile identità. “Ti prego, Signore. Oh, Signore, fallo smettere”.

Mi dimenavo tra le sue lenzuola, in una mattina solitaria, e provavo a risalire all’origine di noi, di cosa mi avesse portato ad una solitudine che era strazio. Era una pena convenente solo a delicati, docili fantasmi, quelli che poserebbero una mano sulle fronti dei dannati se la loro materia potesse attraversare l’oblio. Quale fosse stato il momento in cui avessi pian piano lasciato andare ogni coordinata di me stesso. Non riuscivo ad orientarmi nella lunga catena degli eventi che mi avevano portato a un passo dalla morte. Non temo di dire ciò, perché una notte, l’ennesima, pensai che la Bestia avesse ormai risucchiato in me ogni linfa vitale, e che di me restasse solamente una figurina sottile, che su una terra arida, di sole pietre e sterpi, brancolava a passi leggerissimi, senza aspettativa alcuna sul domani. Perlomeno, non vi era un domani sulla terra dei vivi. La città era tutta fatta di lei, tutte le sue strade portavano a casa. Di lei, labirinto inorganico, ogni angolo avrei potuto conoscere. Mi attraversano le sue persone – cellule dai volti coperti – i loro passi riecheggiano per lassi di tempo interminabili nella profondità di una stanza vuota. Sono io, questa stanza vuota.

Ma avevo ancora la Bestia con me, e di notte in notte mi sarei sempre più abbandonato a lei. Ho continuato a guardare negli occhi suoi, per coltivare la subdola ambizione di essere da lei posseduto; e se mai avessi dovuto scegliere tra la mia stessa vita e la Bestia, avrei sempre scelto la notte con la Bestia. Io guardavo attraverso lei e camminavo dentro una tempesta in cui avrei voluto disperdere i miei anni. Tutta la mia giovinezza, io l’avrei ceduta alla Bestia. Mi avrebbe inghiottito per sempre nelle sue notti insonni. Per la gola, con soli due artigli, mi avrebbe tenuto immobile, al suo cospetto. Così, di notte in notte, vivo dei suoi avanzi, veri scarti del suo spirito. Mesi, mesi interi di abbondante convivio. Di nient’altro mi saziavo se non di ossa spolpate, da lei lanciate ai miei piedi. Di quella febbre che mi aveva inflitto, che mieteva ogni mio desiderio di rivalsa. Di quella mi nutrivo.

 

Ho vissuto in questo limbo per anni, e sono riuscito a tornare alla vita quando, un giorno, la Bestia mi confessò di un male che l’avrebbe annientata prima che potessi arrivare a farlo io. Me lo disse una notte di fine estate che la luce del nuovo anno sarebbe per lei stata un miraggio. Lì, dopo tanto tempo, ho ricominciato a provare qualcosa che non fosse una vertigine, un graduale e costante precipitare. Sarei tornato a guardare nello specchio per vedere solamente il mio riflesso, non più quello della Bestia avvinghiata a uno scheletro vivo, senza più lacrime né voce.

Non ho mai potuto trafiggerlo con la mia sola forza. Più volte avrei voluto dilaniare la sua carne, attraversarla, stringere le sue viscere tra le unghie e farle provare il mio stesso strazio. Ma non ne avrei mai avuto la forza, e col tempo sarei stato grato alla malattia che lo aveva lentamente soppresso. Era così forte, lui, che solamente da sé poteva sconfiggersi.

Ho comunque deciso che lo scorticherò io stesso. Prenderò una lama, la passerò sotto la sua pelle con una cautela maniacale, un’accortezza chirurgica, per non lacerarne neanche la più piccola parte di cute. La strapperò con lentezza, per godere di ogni millimetro che scoprirà la carne nuda. Conserverò la sua pelle scorticata in qualche armadio. La lascerò lì per un tempo indefinito, fino quando non sarò pronto per vederla ornare una qualche parete di casa. Tornerà ad essere il mio intimo simulacro, la Bestia.

 

Arriviamo così ad oggi, quando mi chiede di dormirle accanto per l’ultima volta. So già cosa mi dirà, che sono stato un bagliore di innocenza nella sua buia quotidianità, ma che, in fondo, non sarei stato diverso da tanti altri. Io sono stato solamente una preda più avvicinabile, perché volevo ad ogni costo svestirmi di tutte le mie remore e abbandonarmi alle sue fantasie perverse, farmi guidare lungo il filare delle sue depravazioni.

Questa notte dormo con la Bestia. Ancora sul suo letto, l’uno accanto all’altra. Forse, per la prima volta, troverò il coraggio di pronunciare il suo nome. Terminato l’amplesso, se il mio cuore non cederà all’affanno della notte – l’ultima –, riuscirò a porgli l’unico quesito cui non potrebbe mai sottrarsi.

Se te lo avessi chiesto, avresti mai, tu, potuto sventrarmi nel sonno?

 


Marco Ceravolo (@non.sono.giorgio) è Dottorando presso lo University College Cork, dove lavora sugli incontri tra l’umano e il non umano nelle opere di Federigo Tozzi, Dino Buzzati e Anna Maria Ortese. I suoi campi di ricerca sono l’ecocritica, l’ecofemminismo, gli animal studies. Ha partecipato a convegni in Italia e all’estero e ha pubblicato articoli e saggi di letteratura italiana su riviste scientifiche e di divulgazione (altrelettere, Italian Studies in Southern Africa, Altre Modernità, Aracne, Nazione Indiana, altre). 



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